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Handicap: l’integrazione e le dinamiche familiari




La diagnosi di un handicap grave per lo più viene fatta alla nascita o anche nella prima infanzia: per la madre ed il padre si tratta di un dolore che non trova spazio e profondità nella immaginazione di chi non lo ha sperimentato  e perciò scompagina gli equilibri ed i rapporti esistenti all’interno del nucleo familiare.

Per tentare di figurarci lo sgomento che si produce in tali circostanze dobbiamo tornare con la mente su ciò che normalmente rappresenta un figlio per i suoi genitori, quali aspettative personali e sociali erano state investite durante l’attesa, quali gli aspetti istintuali ed emozionali coinvolti, e via  dicendo. Naturalmente le reazioni, le difese e le capacità di elaborazione sono diverse caso per caso, essendo legate ad una serie di variabili che includono  (per menzionare appena quelle fondamentali):
      -     il carattere e la struttura di personalità preesistente dei genitori,
-          ordine di genitura del bambino disabile, aspetti intrinseci della malattia stessa (eventuale ereditarietà e modalità di trasmissione,  esistenza di responsabilità esterne in caso di lesioni prodotte per traumi del parto, etc.),
-          contesto sociale e familiare allargato del nucleo,
-          condizioni economiche e livello culturale.

Malgrado ciascuna situazione si sviluppi secondo un proprio percorso specifico, esistono alcune caratteristiche che accomunano anche i casi più disparati.

-          Il lutto per la perdita del bambino desiderato, atteso ed immaginato.
  
 Possiamo prendere in considerazione diverse situazioni:
può trattarsi di un primo figlio, il padre e la madre l’hanno cercato e desiderato e sperimentano per la prima volta le loro capacità di generare, amare ed educare un bambino.
Qui le aspettative e le proiezioni di sé sono solitamente più accentuate,  i nuovi genitori  iniziano a costruire la propria identità di adulti e si formano un’idea delle proprie capacità attraverso questo bambino.
 La delusione,  l’angoscia,  la colpevolizzazione ed il danno all’autostima, tendono ad essere più intensi e difficili da superare. Non di rado questi genitori non riescono più a volere altri figli probabilmente perché continuano a viversi come inadeguati ed infatti si giustificano spiegando che “non ce la fanno” ad aggiungere altro lavoro e preoccupazioni al loro ritmo di vita.
In alcuni casi estremi si arriva al misconoscimento, al rifiuto ed all’abbandono in ospedale del piccolo.
Quando nella famiglia invece esistono già altri figli sani, la situazione è solitamente meno drammatica sul piano del vissuto interiore, cionondimeno il carico di lavoro, le ansie e la presenza di altre problematiche più complesse comporta difficoltà che durano anche a lungo nel tempo: i genitori, pur avendo già consolidato una maggiore sicurezza relativa alle proprie capacità, hanno l’arduo compito di educare gli altri figli all’accoglienza del nuovo arrivato, al superamento della vergogna sociale che spesso i fratelli  vivono rispetto a compagni ed amici, etc.
La cosa non è facile se si tiene conto del fatto che il genitore ha già da elaborare il proprio disagio interno e sociale ed inoltre  che la nascita anche di un fratello sano spesso scatena gelosie e condotte regressive nei più grandicelli (immaginiamoci poi se il fratello ha bisogno di attenzioni e cure particolari e se la mamma appare poco disponibile per la comprensibile tristezza  e preoccupazione legata all’evento).

Nel migliore dei casi il lutto viene superato gradualmente, ma  una completa accettazione, laddove viene raggiunta, è di solito il punto d’arrivo di un percorso che passa attraverso lanegazione (con aspettative irrealistiche), i tentativi di compensazione (con sovrainvestimento di aree funzionali considerate relativamente meno compromesse o indenni e/o ancora  la necessità di praticare più trattamenti,  visite specialistiche ed interventi di quanti ne siano effettivamente utili al benessere globale ed alla riabilitazione possibile del bambino), laproiezione del malessere e della ostilità (il figlio che non ci soddisfa ci fa rabbia) su operatori, strutture ed istituzioni (fino a sconfinare talvolta in vissuti di tipo persecutorio), alcune forme di evitamento agite attraverso atteggiamenti deleganti, razionalizzazioni per cui il genitore diventa un esperto della patologia, ma ha scarso contatto affettivo col figlio e si potrebbe continuare, dato che le dinamiche che vengono attivate sono anche in buona misura legate al tipo ed alla gravità dell’handicap.

La persona visceralmente più coinvolta sul piano emozionale è la madre e spesso la diagnosi viene posta prima ancora che sia superata l’iniziale fase di simbiosi per cui il piccolo è percepito come parte di sé.
Più spesso di quanto si creda anche socialmente le madri vengono considerate “responsabili” dato che hanno formato e nutrito la creatura nel proprio ventre.

Lo stress legato alla nascita ed alla cura del bambino affetto da una patologia cronica ed invalidante può essere maggiore di quanto il nucleo familiare sia in grado di reggere: non sono infrequenti le separazioni in queste circostanze e comunque la crisi dei rapporti è quasi una costante.

Alcuni genitori infine, dopo avere attraversato periodi di crisi e riadattamento, riescono a tenere salda e positiva l’immagine di sé stessi, ad amare autenticamente la propria creatura, ad accettarla per quel che è, a comprendere che la sua è una vita degna di essere vissuta come tale ed ad agire quindi in modo da consentire al piccolo uno stile di vita equilibrato e sereno per quanto possibile.

Non tutti possono riuscirci da soli: molto dipende dalla storia precedente e dalle risorse personali dell’individuo. Dato che in molti casi l’evoluzione e la qualità della vita delle persone con handicap può essere legata a quanto hanno vissuto ed è stato loro trasmesso in famiglia e dato che anche la qualità della vita dei familiari è legata alla possibilità di elaborare il disagio, dobbiamo sperare che le strutture sanitarie pubbliche ed i centri di riabilitazione si decidano ad offrire uno spazio dedicato a gruppi di genitori capaci di confrontarsi tra loro e con personale specializzato così da costruirsi situazioni sociali di contenimento, convalida, riconoscimento e supporto tali da facilitare i percorsi interiori e sociali e perseguire il raggiungimento della meta desiderata: lo scopo della vita è viverla, cogliendo l’unica occasione che ci è stata data, e viverla felici!

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